Capogiri da farmaci e pericoli da automedicazione

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 28 febbraio 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE/AGGIORNAMENTO]

 

Capogiro e vertigine sono termini spesso impiegati come sinonimi, frequentemente confusi dai pazienti e assimilati nelle raccolte anamnestiche che non richiedano la precisione necessaria ad una diagnosi di labirintite o di disturbi neurologici specifici, perché si tratta di sensazioni soggettive spesso vaghe e non bene definite, che tendono a variare da una persona all’altra e che talvolta non si prestano ad essere tradotte in parole. In genere, quando un paziente riferisce di avere un capogiro, il medico mentalmente traduce “vertigine” e tende subito ad accertarsi se si tratti di “vertigine subiettiva” o “vertigine obiettiva”: la prima consistente nella sensazione di un movimento rotatorio della propria testa, la seconda nella sensazione che giri il mondo esterno, ovvero l’ambiente circostante. Ma, secondo la semeiotica medica, la prima distinzione è fra la vertigine propriamente detta, che rientra nei disturbi soggettivi di alterato equilibrio ed è classicamente definita come “falsa sensazione di movimento rotatorio del corpo e degli oggetti circostanti”, e le vertigini minori, spesso definite dai pazienti come sbandamenti o incertezze, e ben distinte dalle vere vertigini per la mancanza del senso di rotazione, per la durata breve del disturbo e l’assenza di segni obiettivi e collaterali[1].

Attualmente, si preferisce una definizione neurologica della vertigine: deficit della percezione spaziale che si accompagna a sensazioni di testa vuota, squilibrio o disorientamento. D’altra parte, comunque si voglia definire, la sensazione di testa vuota o leggera, accompagnata da instabilità, insicurezza e fastidio, costituisce uno dei sintomi più frequenti ed aspecifici di malattie di interesse internistico, cardiovascolare, neurologico o psichiatrico.

Il motivo per cui ce ne occupiamo è che una percentuale notevolmente elevata nella popolazione generale, secondo studi recenti, deve questo sintomo all’assunzione di farmaci, e una frazione sempre crescente all’impiego di farmaci non dovuto a prescrizione medica ma ad assunzione spontanea o “automedicazione”, come si dice con un brutto neologismo.

 

 

 

 

 

 

CLASSI DI FARMACI CHE POSSONO CAUSARE VERTIGINI

 

I farmaci che possono causare, favorire o accentuare sintomi riferiti come capogiri, vertigini o “testa vuota”, si possono raggruppare in tre grandi classi in base ad una generica caratteristica comune.

 

 

1. FARMACI CHE AGISCONO SULLA NEUROCHIMICA CEREBRALE

 

    Antidepressivi SSRI

    Antipsicotici

    Antiepilettici

    Sedativi

 

2. FARMACI CHE POSSONO LEDERE L’ORECCHIO INTERNO

 

    Antibiotici

    Antivertigine

 

3. FARMACI PRODUTTORI DI “HEAD-RUSH”

 

    Analgesici

    Antipertensivi

    Chemioterapici

    Antidiabetici

    Diuretici

 

 

1. Farmaci che agiscono sulla neurochimica cerebrale. Questi farmaci agiscono in modo diverso sui sistemi di segnalazione del cervello, in genere determinando in prevalenza o una riduzione degli effetti di un neurotrasmettitore (esempio: antipsicotici: dopamina) o un aumento (esempi: sedativi, benzodiazepine: GABA; antidepressivi, inibitori selettivi della ricaptazione: serotonina). L’esatto meccanismo molecolare che causa l’effetto collaterale non è noto, ma si è ipotizzato che i processi legati al meccanismo d’azione di questi farmaci ostacolino la trasmissione dei segnali provenienti dal sistema vestibolare.

 

2. Farmaci che possono ledere l’orecchio interno. Questi farmaci, sia pure con meccanismi differenti, agiscono direttamente sugli organi sensoriali che controllano l’equilibrio e l’orientamento spaziale nell’orecchio interno: i tre canali semicircolari, l’utricolo e il sacculo (apparato otolitico). Il rischio di lesioni dell’VIII paio di nervi cranici nelle componenti vestibolari ed acustiche da trattamenti antibiotici è noto da sempre (storicamente: lesioni da streptomicina), ma di deve tenere conto del rischio, apparentemente paradossale, costituito proprio dai farmaci antivertigine.

 

3. Farmaci produttori di “Head Rush”. Questi farmaci agiscono sulla pressione arteriosa o sui livelli ematici di O2 o di glucosio. Tutti e tre questi parametri se calano troppo rapidamente possono generare vertigini.

 

La prima osservazione di carattere medico è che i cinque tipi di farmaci più prescritti in età avanzata appartengono a questo elenco di molecole terapeutiche in grado di provocare vertigini. D’altra parte, se è stato stimato che il 40% delle persone sperimenta almeno una volta nella vita una crisi vertiginosa, è pur vero che nell’anziano le sensazioni di instabilità, sbandamento e capogiro, per varie ragioni legate a precisi elementi fisiopatologici, ma anche per motivi legati all’invecchiamento cerebrale, sono notevolmente più frequenti che in altre età della vita. Per tale ragione la scelta dello specifico farmaco, con le sue dosi, e le valutazioni del medico, in termini di rischio/beneficio, sono quanto mai importanti dopo la mezza età. Ma la valutazione medica non si deve trascurare nemmeno nelle altre età della vita. Purtroppo, molte abitudini collegate a “stili di vita” hanno diffuso mode che stanno indebolendo sempre più la linea di demarcazione fra una generica cura di se stessi a scopo estetico e salutistico e l’impiego di molecole e specialità farmaceutiche in grado di modificare parametri fisiologici e che, al di fuori di indicazioni e dosi appropriate, possono risultare tossiche. Ormoni, amfetamine ed altri stimolanti per dimagrire, diuretici e antipertensivi per ridurre il liquido interstiziale e sembrare più giovani, e così via, sono diventati una pessima abitudine molto diffusa, che si aggiunge a quella più tipica degli strati meno istruiti ed evoluti della società, di assumere antibiotici, chemioterapici sulfamidici, antidolorifici e anti-infiammatori senza una diagnosi medica.

Per la crescita culturale e civile di una società, oltre alla trasmissione di alti valori e sani principi morali, vi dovrebbe essere anche l’insegnamento scolastico di ragioni scientifiche e buon senso pratico che consentano di trarre il massimo beneficio dai principi igienici. Non basta insegnare la cura dell’esercizio fisico, l’attenzione ad una dieta equilibrata e il tenersi lontani da sostanze potenzialmente cancerogene nelle persone predisposte, è necessario far comprendere la differenza fra forme generiche di prevenzione e l’impiego di farmaci a scopo profilattico o terapeutico. È necessario sapere che molti farmaci agiscono in maniera diversa sull’organismo sano rispetto a quello ammalato, e che lo stesso farmaco, alla stessa dose, può determinare effetti diversi in persone diverse sulla base di caratteristiche fisiologiche e metaboliche che il medico è in grado di valutare. Basti pensare ad un esempio dei tanti che si possono fare per la terapia dei disturbi mentali: una dose che riesce a stento a sedare una grave crisi di eccitazione maniacale può essere mortale in una persona non affetta dalla crisi, ovvero in una persona in cui il cervello non è nell’assetto funzionale di quello stato di malattia. La scuola dovrebbe fornire almeno le nozioni di base necessarie a capire che per prescrivere farmaci è necessario un serio e rigoroso curriculum di studi, quale quello richiesto per il conseguimento della laurea in medicina e chirurgia, e un altrettanto serio tirocinio pratico, che non potrà mai essere surrogato dalla semplice consultazione dei protocolli di trattamento dei ponderosi volumi di “terapia pratica” ad uso dei medici.

Mi sia consentito, a questo punto, un breve riferimento di carattere storico, che credo possa aiutare a comprendere almeno un aspetto della tradizione culturale e sociale, sostenuta da ragioni scientifiche, del rapporto fra la professione medica, basata sullo studio della fisiologia, della patologia e dell’effetto terapeutico dei farmaci, e la professione del farmacista, basata sulla farmacognosia e sulle tecniche di preparazione dei medicamenti.

L’Italia è il paese nel quale sono nate nel Medioevo le prime farmacie, dette spezierie, nella città di Firenze, in stretto rapporto con la professione medica e rigorosamente regolamentate nelle condizioni di esercizio a beneficio dei cittadini. Le più grandi avevano l’obbligo del pronto soccorso, in funzione del quale ospitavano al loro interno dei medici ed erano collocate ad angolo degli edifici sulle strade, così da facilitare l’accesso a coloro che trasportavano traumatizzati, feriti o persone colte da malore. La ricetta per la preparazione dei medicamenti era spesso consegnata personalmente dal medico allo speziale o farmacista, col quale discuteva per adeguare le dosi alla persona o per sopperire alla mancanza di un principio attivo. Per centinaia di anni le nostre spezierie hanno avuto un intimo rapporto con la cultura e, in una di queste che oggi è una farmacia spesso presa d’assalto dai turisti, si riunivano i membri dell’Accademia della Crusca[2], come ancora si legge sulla targa marmorea custodita al suo interno.

L’Inghilterra è il paese che le spezierie ce le ha copiate, nella doppia struttura di laboratorio per le preparazioni officinali, magistrali e galeniche, e di sede di vendita, riproducendo fedelmente - come oggi fanno i Cinesi - ogni particolare, inclusa l’insegna del popolo fiorentino che contrassegnava le sedi di esercizi e funzioni di pubblica utilità: la croce rossa. Gli inglesi hanno avuto il merito di diffondere le farmacie in tutto il mondo attraverso le colonie, prima fra tutte gli Stati Uniti d’America, ma hanno conservato il birth defect della mancanza del rapporto privilegiato fra medico e speziale, e di una vicinanza maggiore al mercato che alla cultura.

Questa riflessione di carattere storico dovrebbe aiutare a non meravigliarsi che proprio dalle isole britanniche sia venuta la forte spinta delle case farmaceutiche verso la promozione dell’automedicazione, ossia l’acquisto di farmaci da parte di chiunque ritenga di averne bisogno, come un qualsiasi bene di consumo, come una merce. Quelle merci, per intenderci, che fuori dei periodi di crisi si comprano in eccesso e caratterizzano le società contemporanee come “consumistiche”. Nel giro di un paio di decenni, ciò che era ritenuto tanto assurdo da costituire un efficace paradosso umoristico, è diventato martellante realtà quotidiana: la pubblicità televisiva dei farmaci. I medici sono passati da stati d’animo quali costernazione, preoccupazione e indignazione, che accompagnavano sacrosanti ragionamenti scientifici e clinici, ad una rassegnata accettazione della poco civile prevalenza delle ragioni del profitto sulla tutela della salute dei cittadini.

Eppure, ancora oggi come vent’anni fa, si legge in autorevoli trattati di terapia medica che ogni somministrazione di un farmaco equivale ad un esperimento di cui è responsabile il medico. Eppure, ancora oggi si insegna che se per farmaco si intendono le dosi di una sostanza in grado di produrre una o più variazioni misurabili in un organismo vivente, per medicamento si intendono le dosi di farmaco che risultano di giovamento all’organismo ammalato. Che vuol dire? Che è necessaria una diagnosi, fra le migliaia di malattie esistenti, una scelta fra le centinaia di farmaci in uso, una valutazione e spesso un calcolo della dose appropriata e dello schema di somministrazione,  in rapporto alla fisiologia e alla fisiopatologia del paziente e alle caratteristiche farmacodinamiche e farmacocinetiche delle molecole impiegate.

Tali riflessioni dovrebbero rendere evidente, anche a chi non è medico, il nonsenso di un mercato che tende in molti modi all’eliminazione funzionale del passaggio per il ragionamento fondato sulla conoscenza dei processi che hanno luogo nell’organismo umano. Il paradosso di fare a meno della medicina in una realtà in cui il sapere medico continua a progredire e a migliorare il suo potere di diagnosi, cura e guarigione delle malattie, è evidente, tanto quanto la crescita dei profitti derivati dalla vendita di farmaci autosomministrati, sia lecitamente che illecitamente, aggirando la prescrizione obbligatoria. Meno evidente è l’epidemia di sintomi prodotti da farmaci non necessari o incongrui, che gli assuntori spesso attribuiscono a cause dedotte dall’ultima trasmissione televisiva di argomento medico o dalle incrollabili certezze apprese da persone “bene informate” sempre prodighe di consigli.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione del testo e invita alla lettura delle note di argomento farmacologico che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-28 febbraio 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Le vertigini propriamente dette sono anche distinte in patologiche e fisiologiche. La causa principale delle vertigini patologiche è costituita da lesioni o disfunzioni del sistema vestibolare (canali semicircolari, utricolo e sacculo), cui seguono l’interessamento degli altri due sistemi, il somatosensoriale e il visivo, che insieme con il sistema vestibolare garantiscono l’omeostasi della sensazione di stabilità. Le vertigini fisiologiche si verificano quando il sistema nervoso centrale si trova di fronte ad una dissociazione dei tre sistemi, o quando il sistema vestibolare viene sottoposto ad un moto eccessivo o insolito (mal di mare). La dissociazione intersensoriale spiega il mal d’auto, il mal d’aria (vertigine d’altezza) e la vertigine visiva, che taluni provano alla vista di scene di inseguimento al cinema.

[2] La “Spezieria del Moro”, che è sita in Firenze all’angolo fra la Piazza di S. Giovanni (Piazza del Duomo) e Via Borgo S. Lorenzo, era sede degli incontri degli “accademici della crusca”, i quali scrissero il primo vocabolario della lingua italiana lavorando dal 1590 al 1612 in una sede non lontana, nei pressi di Piazza della Repubblica